Come Quando Magda Sclera

E poi arrivano quelle giornate strane, pesanti, lente e, allo stesso tempo, veloci. Pensieri confusi, parole che avrebbero voglia di essere dette e cose che avrebbero voglia di essere fatte. Non è il tempo né di dire né di fare nulla, però; non avrebbe senso, non servirebbe e non sarebbe la cosa giusta da fare. E allora non ti resta che affogare le parole pensate, i desideri repressi e le cose giuste da fare nella coppetta marrone di quel gelato, che, con la messa in onda in tv del suo spot, decreta l’inizio dell’estate – o almeno così diceva non ricordi chi, forse una tua coinquilina –, battendo sempre più forte sul fondo col cucchiaino. Pensieri, parole e desideri che non hanno intenzione di andar via e allora ti si piazzano un po’ovunque: all’altezza dello stomaco o poco più su; negli occhi, che si inumidiscono velocemente e non hanno la forza di trattenere le lacrime che vorresti nascondere e che invece bruciano sul viso; in gola, dove ormai trattieni inutili groppi ed deglutisci magoni insistenti. Tanto ormai sei abituata a mandar giù compressone azzurre grandi la metà del tuo mignolo – tu, che non riuscivi a ingoiare neanche un piccolo moment –,  cosa vuoi che sia mandar giù bocconi amari e pianti abortiti?
E poi arrivano dei momenti, in quelle giornate, in cui non riesci più a trattenere quei pensieri, quelle parole e tutte le cose trattenute. Ti senti come Magda in “Bianco, Rosso e Verdone” e vorresti solo urlare Non ce la faccio più; ma non lo fai perché, di sicuro, dopo tre secondi qualcuno busserebbe alla porta del bagno per usarlo. E allora lasci spazio allo sclero con i suoi piantini e con le parole sconclusionate e nervose alle persone che, ormai rassegnate per l’ingrato compito che è toccato loro in sorte, ti ascoltano, mentre –non le vedi ma lo sai che lo fanno- danno testate al muro. E tu rimani lì, con gli occhi rossi e le risate per un e diglielo, no?, detto con tutta la semplicità e tutta la faccia tosta che tu non hai mai avuto. Fino ad ora.

Vorrei parlarti d’altro ma ho finito le parole
Virginiana Miller – Rimerende

Mammaliitaliani!

La prima volta è stata nel 1970, il 17 giugno. Messico 1970, i mondiali della diretta in mondovisione e, ovunque tranne che in Italia, del colore. Sette ore di fuso orario. Son ancora lontani gli anni in cui lo sport è totalmente succube delle logiche di produzione televisiva; non è come quando, nel 1994, durante i mondiali statunitensi, i giocatori son costretti a giocare ad assurdi orari del primo pomeriggio, con l’afa e il caldo a far da padroni, per permettere alle platee televisive della parte occidentale del mondo di godersi lo spettacolo in prima serata. Nessun diktat televisivo e, in Italia, la Partita, Italiagermaniaquattroatre, viene trasmessa quando è già notte (dalle 23), frantumando un tabù che, fino ad allora, aveva visto la fascia notturna come zona franca della programmazione televisiva. La notte era fatta per dormire e, ad una certa ora, la televisione veniva spenta per evitare distrazioni che facessero perdere preziose ore di sonno agli italiani, che il giorno dopo dovevano andare a lavorare. La notte rimaneva un tabù anche in occasione dei grandi eventi sportivi, in occasione dei quali la radio rappresentava l’unica forma di narrazione in diretta e la trasmissione televisiva avveniva solo in differita, durante orari più consoni. Con Italiagermaniaquattroatre tutto venne stravolto: la gente rimase alzata sino a tardi per vedere la partita, per seguire le gesta degli azzurri, narrate da Nando Martellini. Lui e la sua voce, da soli; nessun altro commento tecnico – e, dati gli strafalcioni dei commentatori odierni, verrebbe da pensare Meno male. Centoventi lunghissimi minuti, con rocamboleschi capovolgimenti di fronte – è così che dicono quelli che ne sanno – e il quarto gol di Rivera che permise all’Italia di accedere alla finale per la conquista della Coppa Rimet. Due ore di sofferenza e di gioia, le definì Martellini. Al triplice fischio dell’arbitro, quasi intorno alle due di notte italiane, per la prima volta, gli italiani vissero la loro notte magica di caroselli, frastuono e festa in una maniera così intensa e così chiassosa come mai era accaduto in precedenza.

Ovunque scoppiò la felicità di massa. A Milano, a Roma, a Napoli, a Firenze, in decine di città, le persone uscirono a fiumi senza sapere neanche che cosa fare, dove andare, per la semplice ragione che non lo si era mai fatto, che non c’era un rito, un precedente, un codice di comportamento acquisito dalle tradizioni. L’unica idea chiara fu che si dovesse fare baccano, dare una eco lunghissima, la più lunga possibile, al boato della vittoria. Suonarono i clacson delle auto, e anche questo era davvero strano e sconvolgente per quell’ora. Né alcuno si ribellò o minacciò denunce perché la gioia era stata, davvero, pienamente e totalmente collettiva.
[Nando Dalla Chiesa, Storia di Italia – Germania 4-3]

Fu la prima delle notti magiche, inseguendo un gol sotto il cielo di un’estate italiana. Gli italiani si ritrovarono tra le strade a festeggiare sotto un’unica bandiera, il tricolore, dimenticando almeno per una notte i problemi legati alle divisioni tra fascisti e comunisti, le manifestazioni, la fine dell’illusione del boom economico e la situazione di baratro economico e sociale in cui si trovava il Paese. Per una notte esistevano solo l’impresa dello Stadio Azteca e l’orgoglio patriottico da esibilire ed esprimere, nonostante si trattasse solo di una semifinale.
Nel 1970, io non c’ero e non ero neanche nella mente dei miei genitori, poco più che sedicenni (che probabilmente neanche si conoscevano); ho visto solo dopo alcuni spezzoni della partita, come tutti d’altronde, e conosco solo alcuni dei nomi dei calciatori che compirono l’impresa, primi tra tutti Burgnich, Mazzola e (soprattutto capitan) Facchetti, che tanto bene stavano in quella filastrocca che faceva più o meno così SartiBurgnichFacchetti, BedinGuarnieriPicchiJair, MazzolaDomenghiniSuarezCorso.
1982. Il mondiale spagnolo, successivo allo scandalo del Totonero. Il mondiale di PaoloRossi, fermo da due anni e promosso, in meno di un mese, eroe nazionale. Il mondiale dell’urlo di Tardelli, dei baffi dello zio Bergomi e del silenzio stampa, con Zoff e Bearzot unici portavoce azzurri. Il mondiale del Presidente con la pipa – pipa che serve per bruciare nel fornello le amarezze e le delusioni –  che esulta in maniera vistosa sulle tribune del Bernabeu; quel presidente che ti vien voglia di abbracciare anche solo vedendolo in fotografia, che gioca a briscola con i calciatori e con l’allenatore sull’aereo del ritorno e che, a chi gli chiede se tutti i festeggiamenti rischiano di far dimenticare i problemi della nazione, risponde che dopo sei giorni di lavoro viene la domenica no? Ebbene, chi ha lavorato i sei giorni ha il diritto la domenica di andarsene con la famiglia a gioire sulla spiaggia, in montagna o altrove. E gli si deve dire come mai tu gioisci quando ti attende il lunedì? Io penso adesso alla domenica e il lunedì verrà a suo tempo. Il Mondiale di Martellini, ancora lui, che ripete per tre volte Campioni del mondo. 11 luglio 1982, Italia-Germania 3-1; è una finale, questa volta l’euforia è più che giustificata, la coppa è stata conquistata. Gli italiani scesero di nuovo in piazza a festeggiare, per celebrare quella festa che un po’si aspettavano, visto che, da giorni. moltissimi si erano procurati i tricolori, le sciarpe e tutto l’occorrente per la festa.
Nel 1982, io c’ero ma non avevo neanche sei mesi. Ogni volta che si parla di quei mondiali,  mio padre mi ricorda che lui, quei mondiali lì, li ha visti poco e male; quell’anno i miei decisero di affittare una casa al mare perché ai bambini (e non solo) il mare fa bene e, in quella casa lì, l’antenna della tv funzionava poco e pure male. Io, però, son sempre stata orgogliona di essere nata nell’anno del Mundial.
2006. Ancora Italia–Germania, ancora una semifinale. Ancora uno scandalo nel mondo del calcio, ancora sfiducia degli italiani nei confronti di tutto l’ambiente. Pochi ci credono, in tanti, alla fine, salgono sul carro dei vincitori. Arrivare alla semifinale grazie ad un rigore segnato all’Australia da Er Pupone Totti negli ultimissimi minuti di recupero del secondo tempo e immortalato da delle immagini che ricordano tanto quelle che descrivono il momento precedente un duello in un film western. Italia –Germania giocata in casa del nemico, in uno stadio completamente bianco. I novanta minuti di gioco si concludono a reti inviolate, gli ultimi interminabili minuti dei tempi supplementari al cardiopalmo e il gol di Grosso, a due minuti dalla fine. L’esultanza di Grosso che scuote la testa come per dire Non ci credo. L’ultimo minuto sembra non passare mai e, mentre sei lì a sperare che i tedeschi non pareggino, ti ritrovi ad esultare per il secondo gol azzurro. Il triplice fischio e l’abbraccio di Materazzi all’arbitro. La finale conquistata e quell’Andiamo a Berlino, che rimarrà a lungo nella memoria dei tifosi. Le strade e le piazze delle città italiane accolgono ancora una volta la festa di una notte magica, anche se è solo una semifinale.
In questi giorni ho letto spesso in giro che ogni generazione ha la sua ItaliaGermania; quella del 2006 è la mia. Scendere in strada senza sapere cosa fare, seguire il flusso di gente con le loro bandiere e i tricolori improvvisati. San Giovanni, il Colosseo, tutto bloccato da gente che non aspettava altro che un motivo per festeggiare e far casino. Anche se è per una semifinale.
2012. Ancora una volta Italia e Germania si ritrovano in semifinale; anche se questa volta si tratta di Europei e non di Mondiali. Sono gli Europei del boicottaggio per le torture subite dai cani in Ucraina; gli Europei della crisi e dei PIGS contro la Germania. Gli Europei dei social network, dei meme, dei boicottaggi portati avanti davanti allo schermo di un pc e delle battute ripetute miliardi di  volte – col risultato di render brutte anche quelle che, in un primo  momento, una risata l’avevano strappata. Gli Europei dei bastiancontrariopefforza, di quelli bravi a ripetere miliardi di volte che l’Italia non deve andarci ( per poi essere pronti a suonare la propria trombetta e a saltare prontamente sul carro dei vincitori, una volta conquistata la finale) e dei Con la crisi che c’è, perdete tempo per seguire ventidue deficienti che corrono appresso ad un pallone. Gli Europei del tabaccaio di Buffon e del Froscio di Cassano. Germania-Italia di Balotelli, che segna, due volte, esulta e va ad abbracciare e baciare la sua mamma – lacrimuccia, scusate.
2012. Ancora una volta c’ero. Ero in una piazza affollata, cercando di bloccare gli istinti omicidi nei confronti del bifolco che avevo accanto, che usava froscio per insultare gli avversari e chiamava Balotelli negro, a cui lanciare una banana,  e evitando di respirare il fumo dei fumogeni che sventolavano nelle mani di chi mi era accanto. Mammaliitaliani /1

C’ero cercando di guadagnarmi uno spazietto di visuale e un rifolo d’aria per respirare e dar sollievo alla pelle sudata. C’ero distraendo un mio amico nell’attimo esatto in cui hanno segnato e cercando di rimanere in piedi e non perder le scarpe al momento dei gol. C’ero mentre tutti attorno a me urlavano Se saltelli, segna Balotelli, e saltellavo pure io, lasciando come ricordo ai sampietrini di Piazza del Popolo i miei polpacci.Mammaliitaliani /2

C’ero negli ultimi 45 minuti del secondo tempo col ragazzo accanto a me che continuava a ripetere, ad alta voce,  quanto tempo mancasse – Sì, ha iniziato a far il conto alla rovescia dal minuto 46 – e col suo amico che, negli ultimi cinque minuti di gara, ha voltato le spalle al maxischermo perché non ce la faceva a vedere. C’ero nel silenzio assoluto nel momento del rigore segnato dal giocatore tedesco. C’ero al triplice fischio quando la gente attorno a me è esplosa nella sua euforia: abbracci, urla e, per non farci mancare nulla, il pogo. Le bandiere sventolanti, gli inni, i popopopopopo e i cori da stadio. Dedicati a tutti, nessuno escluso: Daniele De Rossi aleeeooohhoohh, Non vincete mai, il Papa sta a rosica’, gentili parole nei confronti della Merkel e qualche amorevole pensiero anche per la Spagna. Un’altra notte magica da festeggiare, nonostante sia la semifinale e nonostante la Merkel domani ci farà un **** così. E , infine, tutti verso piazza Venezia per sventolar il tricolore sotto l’altare della patria.
Un’altra notte magica, nonostante tutto.

 Mammaliitaliani /3

[E poi va a finire che l’immagine più bella è quella che non hai fotografato: tutti quei bambini che, seduti sui sedili posteriori degli scooter dei propri genitori. sventolavano dei bandieroni più grandi di loro]

Comme une petite madeleine

Come l’effetto di una petite madeleine, ma col tatto al posto del gusto. Tagliavo i pomodorini per farne un’insalata e, all’improvviso, con le mani ricoperte dai semini, una sensazione familiare mi ha riportato a tantissimi anni fa.
Mi ha riportata allo spiazzo accanto a casa al mare di mia zia, davanti alla casetta abbandonata, diventata per tanto tempo il fortino di un gruppetto di bambini, che, lì dentro, passavano ogni pomeriggio delle loro estati, incuranti della sporcizia e dei potenziali pericoli. Mi ha riportata a quelle mattine passate con le mani (e le braccia) calate in un secchio ripieno d’acqua intenta a spremere i pomodori per far uscire tutti i semini in modo che potessero essere pronti per la salsa, da usare poi durante l’inverno.
Da piccola, l’estate durava tre mesi, dal giorno dopo l’ultimo giorno di scuola a pochi giorni prima del suo inizio, e per tre mesi ero lì a due passi dal mare. Io, mia sorella e i miei cugini venivamo sbolognati nella casa al mare degli zii, che abitavano in quell’isolata località marina durante tutto l’anno, non solo d’estate, e, tra alti e bassi, condividevamo un’enorme stanza coi quattro letti e tutte le ore della giornata. Il nonno N. ci preparava le pesche col vino rosso – c’è sempre stato il vino rosso al suo tavolo, solo rosso –, ci faceva bere l’ultimo goccio di caffè (corretto con l’anice) dalla sua tazza e ci insegnava a giocare a poker, passando alla scopa quando ci stufavamo. Ci caricava nella 127 bianca per andare a comprare il pesce nel paese con la torre lì vicino e, al ritorno, si fermava davanti alla spiaggia vicino casa per mandarci al largo a riempire le taniche con l’acqua salata; con cosa volevi lavare le cozze, altrimenti?  Dovevamo aiutare la zia V. e non farla arrabbiare anche perché doveva già occuparsi di nonna C., che, a causa della malattia, era più ragazzina di noi. Lo zio A. aveva sempre le tasche piene di caramelle all’anice, ci chiamava, quasi di nascosto, per regalarci le caramelle o le mille lire e mi definiva la sua principessa perché, non avendo figli suoi, si era affezionato a quella bimbetta che, per i primi due anni della sua vita, ha fatto il pacco postale tra casa sua e quella dei suoi genitori.
Le nostre giornate si svolgevano tutte allo stesso modo. La mattina si andava in spiaggia, si aspettava impazientemente il momento giusto per fare il bagno (sempre e solo due ore dopo la colazione), giocando a bocce – altrimenti non si spiegano le migliaia di foto in cui siamo lì tutti e quattro schierati con le bocce in mano – o a racchettoni, si stava in acqua fin quando non arrivava il momento di andar via. Massimo a mezzogiorno e mezzo si pranzava, ognuno sparecchiava il proprio piatto e poi si dava una mano nelle pulizie. Si andava a letto per il non pisolino pomeridiano in attesa della fine della controra e dell’arrivo delle quattro e mezzo, quando era consentito fare rumore e riunirsi con gli amichetti per giocare. Interi pomeriggi a sfidarsi a pallavolo su campi improvvisatissimi, a far di casette abbandonate e di spiazzi tra gli alberi i propri nascondigli segreti, a giocare a occhidigatto – gioco che ogni volta si concludeva con un ma no, non dovete acchiapparci – e, a volte, anche a preparare imbarazzanti spettacoli da mettere in scena poi sulla scalinata in giardino; alle sette e qualcosa tutti insieme davanti al televisore per vedere l’ultima e entusiasmante puntata de I cavalieri dello Zodiaco. Si cenava e poi si tornava in strada a giocare (a palla avvelenata, a strega comanda-colore e  a lupo mangia-frutta) o a cantare a squarciagola, seduti sul nostro muretto, le canzoni dei cartoni animati.
Ora, l’estate non dura più tre mesi, gli zii A. e V. non ci sono più, così come i nonni C. e N.. Non torno più con piacere nella casa al mare, il nostro muretto e la vecchia casa abbandonata non ci sono più perché qualcuno ci ha costruito sopra e l’anno scorso, per la prima volta, non ho sentito quella spiaggia come mia. Non gioco più a bocce e il massimo della vitalità che mi concedo in spiagga è girare le pagine di un libro, portare una pesca alla bocca o trasportare il materassino sino al mare. Niente più palla avvelenata, strega comanda-colore o lupo mangia-frutta ma altri giochi con regole meno precise e dalle conseguenze più devastanti. Non più ginocchia sbucciate e ricoperte di mercurio cromo – non era estate senza le mie ginocchia colorate di quel caratteristico rosso – ma uno stomaco (e altro) ormai spossati da tutte queste tribolazioni a senso unico.

“Ricordati di amare le piccole cose”

Siamo lì, io e lei, sulla banchina di una delle poche fermate all’aperto della linea B. Un treno è appena passato e ha portato via la maggior parte delle persone che aspettavano con noi, mentre il sole si riflette potente sui binari. Continua ad osservare il display che indica i treni in arrivo e si avvicina chiedendomi informazioni su quella metro tanto strana da quando ci sono due corse e due diversi capolinea, perché lei ha un’età ormai e non riesce a veder bene cosa ci sia scritto su quel display, che, beffardo, indica continuamente la direzione della banchina, senza dirci quand’è che arriverà il prossimo treno. Rebibbia, tre minuti, le dico quando finalmente il testo cambia; a quanto pare il display non prevede nessuna corsa per Conca d’Oro e siam destinate ad aspettare lì un’eternità. Eppure son qui ad aspettare da tanto e nell’altro verso ne son passati tanti. Chissà che fine fanno una volta arrivati a Laurentina?, mi dice.
Dopo qualche minuto, mentre il display in stazione continua ad avvisarci che è in arrivo la corsa per Rebibbia, un treno con su scritto Conca d’Oro si ferma davanti a noi. Indecise sul da farsi, saliamo perché tanto al massimo scendiamo alla prossima fermata e attendiamo il treno successivo. La vocina all’interno del vagone ci rassicura sul capolinea e, dopo esserci sedute una accanto all’altra un po’ per caso e un po’ perché così ci facciamo un pezzo insieme – mi dice contenta -, inizia a parlarmi di lei. Venticinque minuti in cui mi racconta di tutto, della sua vita, del suo non annoiarsi mai e delle giornate che finiscono senza che se ne accorga, della sua casa, che ha ristrutturato a suo gusto perché prima era un  *** – il rumore della metro in stazione copre la sua voce e un po’mi vergogno a chiederle di ripetere (e, infatti, non lo faccio) –, e che, si vede che ne è orgogliosa, piace a tutti quelli che la vedono. Mi parla del suo star bene da sola  –  perché son vedova, mi sussura quasi sottovoce – perché così può godersi la sua casa e fare tutto ciò che le pare, soprattutto ora che è in pensione. Leggere, cantare, ballare e anche far la sua ginnastica; non come prima, quando ancora il figlio abitava con lei e si lamentava per il rumore. Prendendo spunto da un Gesù Cristo enunciato da uno che, al centro del vagone, fa la sua predica in solitaria (ma ad alta voce), mi parla dell’ultimo libro che ha letto, quel Suo Santità di Nuzzi che l’ha fatta un po’ arrabbiare perché sì, son cose  che si sanno ma a leggerle così, nero su bianco, ti fanno ancora più rabbia e che, però, è meno bello di Vaticano SPA. Mi dice che lei non avrebbe voluto essere battezzata – cosa che ha fatto con suo figlio per dargli la libertà di scegliere una volta adulto –  e che, a differenza dei cattolici praticanti che, probabilmente, avendo bisogno di qualcosa in cui credere per andare avanti, credono in Dio, lei crede solo alla vita, allo scorrere del tempo, aggiungendo che il Paradiso non è qualcosa di ultraterreno ma Il Paradiso è questo, il Paradiso è la vita. Nel frattempo, nel mio stomaco, all’udire di quelle parole, si palesa un accenno di senso di colpa per la maniera in cui, ultimamente, paio lasciar scorrere la mia vita, guardandola da lontano, prigioniera come son del mio sentimento – chiamiamolo così, anche se non è che abbia un vero proprio nome, non è che sia così comprensibile da dargli una giusta definizione –, dei miei blocchi e delle mie ansie. Senso di colpa e senso di inferiorità al cospetto di una donna che, pur avendo il doppio della mia età, ha il doppio, se non il triplo, della mia gioia di vivere.
Quando non rimangono che poche fermate rispetto a quella dove devo scendere, mi dice che a lei piace un sacco attaccar bottone con la gente così come ha fatto con me anche se, a volte, incontra dei musoni che mamma mia, che tristezza. Spesso lo sono anch’io, le dico. No, tu no, sei così sorridente!, ribatte senza neanche farmi completare la frase e aggiungendo le sue scuse per avermi dato del tu dal primo istante in cui ci siam parlate. Completamente spiazzata da questa sua risposta, non posso far altro che sorriderle e dirle che dipende anche da chi ci si trova di fronte e con lei vien naturale farlo. Anche se vorrei dirle che no, non sono sempre così sorridente, che, anzi, in questo momento, il sorriso mi pare una delle cose più irragiungibili che possano esserci e che ci sono giorni in cui son in balia completa del piantino, che mi coglie nei luoghi e nei momenti più disparati. Alla fermata dell’autobus, con gli occhiali da sole che, pur essendo giganti, possono fare poco per nascondere il viso rigato; alla scrivania mentre son intenta a scrivere o, di notte, pochi istanti prima di addormentarmi. Vorrei parlarle dei miei ultimi sorrisi: quello intrappolato in una foto scattata in una cafèterie parigina dopo due giorni d’amore con la città stessa; quelli rubati dai bambini che incrocio per strada e che mi contagiano con loro sorriso sgangherato; quelli per i pranzi improvvisati o quelli, lucidi, per le cose belle che accadono alle persone a cui voglio bene. Vorrei dirle tutto questo ma preferisco il silenzio. Le sorrido e mi alzo perché la prossima è la mia fermata.
Mentre sono lì, in piedi accanto a lei, aspettando (dal lato sbagliato) che il treno arrivi in stazione e apra le porte, lei mi prende il braccio dolcemente e, fissandomi negli occhi, mi dice Mi raccomando, ricordati di amare le piccole cose. Le rispondo che lo farò (o ci provo almeno), la ringrazio per la chiacchierata e le auguro una buona giornata, con un po’di tristezza – lo confesso – per doverla già salutare. Un ultimo sorriso prima di correre via dalla porta – ero pur sempre dal lato sbagliato-, sperando che sia solo un arrivederci. Magari ci rincontreremo di nuovo lì, in quella stazione assolata, pronte ad affrontare di nuovo la traversata da Roma Sud a Roma Nord per tornare a casa dopo una serata di birra, musica, risate e amicizia o per andare a pranzo dal proprio figlio. Tanto Roma è piccola e poco popolata, cosa vuoi che ci voglia?

Come il refrain fastidioso di quella canzone rap

Dimentico se ho dato o no le quattro mandate al portone di casa quando mi trovo a soli due isolati di distanza. Dimentico di richiamare i miei appena mi libero. Dimentico di comprare la carta igienica, lo shampoo e un’infinità di altre cose quando stanno per finire. Dimentico di riporre il cordless al suo posto dopo aver finito una telefonata e la bottiglia dell’acqua in frigo dopo aver bevuto. Dimentico che il 63 non passa più da Torre Argentina. Dimentico il numero civico di casa di una mia amica, ogni volta. Dimentico gli sportelli dei pensili aperti e inevitabilmente ci vado a sbattere la testa, procurandomi eleganti bernoccoli e interessanti sbucciature. Dimentico la sottile differenza tra ivi e ibidem se non li uso da più di quarantott’ore. Dimentico di chiudere la bocca mentre son sotto la doccia. Dimentico di mettere il lettore mp3 sotto carica prima di una lunga passeggiata. Dimentico di avvicinare l’accappatoio prima di infilarmi sotto la doccia. Dimentico di aver tolto le lenzuola per poi accorgermi di doverle rimettere pulite solo cinque minuti prima di andare a dormire. Dimentico che giorno sia. Dimentico in lavatrice il bucato che aspetta solo me per essere steso. Dimentico di attaccare il netbook all’alimentatore nonostante l’avviso sul livello basso della batteria. Dimentico di mettere il sale o a che minuto ho calato la pasta. Dimentico di bere i salutari 2 litri di acqua al dì. Dimentico dove ho posato le chiavi appena rientrata in casa o gli occhiali appena li ho tolti. Dimentico di aver truccato gli occhi con modeste quantità di mascara e matita nera.
Dimentico tutto, le cose importanti e quelle non. Dimentico tutto tranne quello sguardo, che mi si palesa così all’improvviso mentre faccio altro. Un’immagine nitida, qualche secondo, qualche brivido lungo la schiena e una morsa allo stomaco. Dimentico tutto tranne te, come direbbe quel rapper lì nel fastidioso refrain di una sua canzone di successo.
Poi magari era solo un abbaglio ed avevo veramente soltanto i capelli spettinati o una macchia sulla felpa.

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