“Stai sotto la neve, ho bisogno di parlarti”

Era tutta la mattina che l’aspettavo e, alla fine, è arrivata. All’inizio scendeva timidamente, pochi fiocchi che si mescolavano con la pioggia. Dopo un po’, però, ha preso coraggio e ha iniziato a scendere copiosa. Fiocchi di neve così grandi non li avevo mai visti. Rimanevo imperterrita affacciata alla finestra, senza schiodarmi da lì: avevo paura che, offendendosi per non essere ammirata, la neve smettesse di scendere.  Ho spostato la scrivania sotto la finestra e ogni tre secondi ci buttavo un occhio, sperando che non smettesse mai. Aspettando che attaccasse per esserne veramente contenta. Un’altra bella fioccata notturna e alla fine ha attaccato.
Svegliarsi col rumore di palette che creano dei sentieri nel cortile. Le urla e le risate dei bambini. Correre alla finestra e vederla ancora lì. Vestirsi in fretta per andare a giocare, nonostante il freddo e, soprattutto, l’età. Il parco, le distese bianche, sconosciuti che si sorridono solo per il gusto di condividere quella gioia, le palle di neve, i pupazzi di neve improvvisati. Tornare a casa, decidere che forse è il tempo di andare a vedere il Colosseo perché chissà quando me ricapita. Il passo che a poco a poco diventa meno incerto, la paura di scivolare e di trovarsi col sedere a tu per tu con la neve-mista-ghiaccio, la musica potente nelle orecchie, il piede che ogni tanto scivola, sorridere agli sconosciuti per una scivolata evitata, le mani al riparo nei guanti. Percorrere sette chilometri e mezzo e vedere apparire l’Altare della Patria, ancora più bianco grazie alla neve. I Fori innevati e la luce che inizia ad andar via. Arrivare quando il buio inizia a scurire quel bianco che avevo voglia di vedere, il mio solito tempismo. Il Colosseo e la poca neve rimasta, mentre intorno ognuno cerca di catturare il momento con la propria macchina fotografica. Provare a fotografare fin quando le dita non iniziano a far male. Ghiacciate, incapaci di muoversi. Rimetterle in tasca e tornare a casa, con in testa vecchie chiacchierate su neve e mani calde – lobotomizzatemi, per favore – e nelle orecchie le note di una di quelle canzoni che evito da un po’. Chissà se il Colosseo ha sentito le mie imprecazioni mentre cercavo inutilmente di cliccare sul tasto Skip.

Fuori dalla palazzina i fiocchi sembrano stracci. Stracci bianchi non ancora usati. Lo scricchiolio a ogni passo è l’unico verso che scappa alla neve. Il freddo venuto per conservare. Conservare pensieri e corpi. Fino a quando saranno più pronti per essere usati.
[La neve se ne frega – Luciano Ligabue]

La strada del ritorno, il freddo che aumenta, le strade che si ghiacciano. Dover far maggior attenzione a dove si mettono i piedi, bloccare i pensieri per un po’. Se sei impegnata a salvare il fondoschiena dal fondo ghiacciato, puoi pure mandare le paranoie in stand-by per evitare di deconcentrarti e finire col fondoschiena a terra. Il freddo che trapassa il giubbotto, la felpa e la maglia e arriva dritto dritto allo stomaco. Nel romanzo di quel cantante emiliano lì, i protagonisti si rifugiano sotto la neve per sfuggire ai controlli da GrandeFratello del mondo in cui vivono. Mentre cammino, invece che di proteggere i miei pensieri e le mie sensazioni, chiedo alla neve di anestetizzarli, di bloccarli ed espellerli, di ibernarli fino al momento in cui perderanno il loro vigore e la loro forza e non faranno più male. Perché ormai è passato del tempo – tanto tempo – e mi sento abbastanza stupida a continuare a rimanere in loro balia, a continuare a sentirmi in questo modo, a permettermi di sentire ancora ciò che sento. Ed è anche inutile, oltre che stupido.
Arrivare a casa, chiudere la porta di casa e accorgersi che no, in realtà, la neve ha fatto ben poco per anestetizzare. Tutti quei pensieri, quelle sensazioni e quelle turbe adolescenziali sono ancora lì. Ancora, imprecazionivarie. La passeggiata, oltre al freddo penetrato sin dentro alle ossa, ha lasciato la consapevolezza che, se ho necessità di camminare per distendere la mente e distrarmi, non mi ferma nulla, neanche i marciapiedi ghiacciati. E, soprattutto, se faccio attenzione riesco anche a non scivolare.
Affacciarsi alla finestra con un occhio verso il cielo, nella speranza che ricominci a nevicare. Come quando ero piccola: la prima cosa che facevo appena alzata era correre alla finestra nella speranza di vedere tutto imbiancato. Non accadeva mai però. Laggiù, nella terra del solemarevento dove son nata, la neve è un evento eccezionale; così come lo è qui nella Città Eterna. Ecco, perché mi emoziona, nonostante tutto.

“Stai sotto la neve, ho bisogno di parlarti”

Sto sotto la neve, non ho voglia di parlare.

cosa resterà di questo 2011

Gennaio

Gennaio. Avrei potuto benissimo prevedere parte dell’andamento di questo 2011 dai primi minuti dopo lo scoccare della mezzanotte dello scorso Capodanno: dopo il botto del tappo dello spumante e le scintille accese per l’arrivo dell’anno nuovo, ci siam seduti attorno al tavolo e abbiamo deciso di giocare a Risiko. Non c’avevo mai giocato prima e non c’ho giocato neanche quella sera. Non ricordo perché ma, alla fine, dopo aver steso il cartellone e mischiato le carte, quando è arrivato il momento di iniziare a giocare, abbiam deciso che no, niente Risiko. Meglio metter tutto a posto e affidarsi ai colori ed ai numeri di Uno. E così, mi son ritrovata a non giocare ad un gioco, per il quale era stato tutto predisposto e di cui, sino a quel momento, non conoscevo le regole. Avrei dovuto capire allora come sarebbe andato quest’anno dispari che finirà tra qualche ora. Finalmente, aggiungerei.

Febbraio

Febbraio. Citano’ col suo mare di inverno, i volti sconosciuti, la timidezza che la fa da padrona e il vino rosso che cerca di contrastarla. E poi Bologna coi suoi portici, le risate, i brindisi, il mio equilibrio instabile seppur da sobria, quel verso di Capossela cantato in continuazione, il debutto con vestito molto corto e, soprattutto, la neve. Saltare fuori dal piumone per correre alla finestra per vedere i fiocchi di neve cadere giù dal cielo e, tra le altrui imprecazioni, esserne l’unica felice. Anche se è durato poco; perché le cose belle durano poco, così mi hann detto.

Marzo

Marzo. Ritornare a leggere con continuità, lasciandosi coinvolgere totalmente dalle storie, che, per un motivo o per un altro, mi lasciano lo stomaco attorcigliato. Fante, il suo Arturo Bandini e quel Fa’ finta che io sia lei che mi fanno incazzare talmente tanto al punto da voler entrare nel libro per tirar due ceffoni qua e là. La voglia di tornar a scrivere lettere a mano e le belle parole di Handwritingme, che colorano una giornata iniziata male. La primavera ed il suo arrivo col botto: un 21 marzo passato in preda ai brividi ed a non meglio identificati disturbi intestinali. Il desiderio di una casa in riva al mare. Il biglietto per Campovolo.

Aprile

Aprile. Un’avventura lavorativa che finisce dopo mesi estenuanti. Le giornate che iniziano ad allungarsi e a riscaldarsi. Tornare a far visita al mio mare, di cui sentivo la mancanza e la necessità. Pensare che sarebbe bello essere un soffione che, al primo colpo di vento, vola via, frantumandosi in mille pezzetti e finendo chissà dove. La distrazione che prende sempre più piede.

Maggio

Maggio. Sentirsi come un puzzle che ha perso buona parte dei tasselli da cui è composto e non sapere dove andare per recuperarli.  Voglia di scappare via. Accorgersi di aver perso tempo (e occasioni) per stare appresso a qualcosa che sembrava alba ma non lo era. L’atletica e i suoi uomini volanti. La sensazione di vivere in una serie tv scritta male.

Giugno

Giugno. Il mare. L’amato Ionio col brutto tempo e l’acqua fredda, che non permettono di inaugurare i bagni estivi. L’Adriatico, che conferma la sua bruttezza e che, percependo il mio astio, tenta addirittura di affogarmi. Di nuovo Citano’, col suo mare, le facce sconosciute che non lo sono più tanto, il maialino come unità di misura per l’emozione, la schiena bruciacchiata e i movimenti rallentati. Sentirsi come quegli sport che vengono visti solo se c’è un italiano che gareggia in finale, durante i caldi e afosi pomeriggi estivi. I Mondiali di Beachvolley, con la sabbia, i suoi campioni ma senza il mare. Un braccialetto dei desideri che si rompe dopo un po’ di anni.Luglio

Luglio. La musica dal vivo.  I concerti dove fare i conti all’improvviso con l’Imbarazzo con la I maiuscola. Quelli, attesi da mesi, goduti a metà perché i pensieri portano altrove. Quelli dove urlare “vaffanculo” a piena voce e quelli dove la pioggia – provvidenziale- camuffa repentinamente una delusione improvvisa (anche se, forse, attesa). Un pezzo di vita portato via da uno sconosciuto, assieme al portafogli, al telefonino ed alle chiavi di casa. Una fame riaccesa. I saluti non fatti e quelli difficili da fare, soprattutto perché a medio-lungo termine. Affrontare silenzi improvvisi, non voluti e, in quel momento, incomprensibili. Rendersi conto che forse ho smesso di avere desideri perché mi son rotta del fatto che vadano a finire sempre in mani e vite altrui.AgostoAgosto. I capelli e i vestiti che diventano sempre più corti. I silenzi. Chiedere – invano – al mare un aiuto per lasciar correre, per dimenticare. Le unghie che crescono. I libri di viaggi e Siranò. Pensare seriamente a Parigi. Le notti insonni, i pensieri costanti e i ricordi che si palesano all’improvviso. Nitidi, vividi, pronti a pugnalare lo stomaco. Lecce e la sua piazza che mi riempie ogni volta di emozione. L’attesa di settembre.SettembreSettembre. Lasciare il mare e tornare acciaccata nell’eterna città. Una sciarpa nuova per affrontare l’autunno. Ricominciare a scrivere, perdersi tra le parole ma non veder l’ora di metter la parola“fine”. La mente distratta dai tormenti dello stomaco. L’irrazionalità che ormai ha preso il sopravvento e capire che, in fondo, l’irrazionalità stessa è già una risposta. Dare sfogo alle proprie sensazioni ed ai propri pensieri. Rendersi conto che, se qualcuno ha voglia di vederti, il modo lo trova, nonostante tutto; deve solo volerlo. Un abbraccio davanti ad  una candelina in una borsa, un bicchiere mezzo vuoto di mojito e una coppetta piena di noccioli di olive; un abbraccio sincero, come tra persone che si conoscono da un sacco di tempo.OttobreOttobre. Cartine della metropolitana parigina che si mescolano ai libri per la tesi. Il sogno parigino che a poco a poco prende forma. Distrarsi. Agire di istinto e, nonostante ansia, tachicardia e agitazioni varie, cliccare su invia. Ricevere una risposta che in qualche modo suona come nonmiinteressiepoistoconunaltra. I pranzi improvvisati, De Gregori nelle orecchie mentre attraverso una Roma semideserta. Pensare che sia stato tutto inutile. I primi freddi che arrivano e arrendersi alle maniche lunghe. Quelle parole che rimbalzano nella testa.  Non pensarci. Sentire la mancanza di chi si è trasferito: le chiacchierate al telefono non sono la stessa cosa di una cena ed una bottiglia di vino.NovembreNovembre. Non pensarci. Un biglietto per Parigi nella casella mail e un posto dove dormire. Distrarsi. Iniziare a stilare elenchi delle cose da fare una volta lì. Accorgersi che non è così facile eliminare una persona dalla propria vita e dai propri pensieri. Il fondotinta ed il correttore diventano i miei migliori amici e nascondono i segni delle notti insonni. Eliminare tutte le parole e tutte le note che possano far male. Iniziare ad ascoltare soltanto Caparezza; ascoltarlo talmente tanto da arrivare a sognarlo mentre, auscultandomi il cuore, che batte a 25mila battiti al minuto, mi dice che devo amare di più me stessa – se non son sogni strambi, è inutile farli. Non pensarci. DicembreDicembre. Comprare una guida per Parigi e iniziare a scarabocchiarla. Segnare le cose da fare assolutamente. Non pensarci. Imparare a scrivere Montmartre correttamente. Dimenticarsi a volte di come si faccia a respirare. Consegnare dei regali di Natale con soli 364 giorni di ritardo. Il freddo, quello vero, che arriva. Finalmente; almeno questo freddo che sento dentro è giustificato, in qualche modo. Accorgersi che, durante quest’anno, io e la mia piccola Lumix non ci siamo frequentate abbastanza. Comprare un cappello per affrontare quest’inverno che, a quanto pare, sarà durissimo.

(Non) è solo il tempo a rivelare la stagione

Era sempre stata lì, nella casa di mia nonna al centro del paese.
Le prime cose che facevo ogni volta che salivo per quelle scale buie, scivolose e bianche, erano superare lo studio-ingresso, andare in salone e farmi dondolare da quella sedia, che, ai miei occhi di bambina, appariva come la cosa più bella che ci fosse. Ne ero innamorata. Tutto intorno era pieno di polvere: i libri sulla scrivania appena entravi, i divani verdi accanto alla sedia, le cartoline ammucchiate alla rinfusa nella scatola di cartone, poggiata sul tavolino di marmo, e tutto ciò che affollava quella casa abbandonata. Una casa che non ho mai visto animata, vissuta.
Alla mia nascita già non ci abitava più nessuno. Non ho foto tra quelle quattro mura – e, da primogenita, di foto ne ho tante, anche in case sconosciute di gente che non so chi sia. Eppure se chiudo gli occhi posso ricostruire nei minimi dettagli tutta la casa, stanza dopo stanza: ingressosalonecameramatrimonialecorridoiocucinacucininostanzadeipupibalcone.
Qualche anno fa, la casa al centro del paese è stata venduta e, per questo motivo, hanno dovuto svuotarla. Non potendo abbandonare ad un destino incerto la mia amata sedia a dondolo, ho insistito così tanto coi miei che, alla fine, l’hanno presa, fatta sistemare – mettendole un cuscino verde che non mi fa impazzire, l’avrei preferito viola ma non posso averla sempre vinta – e messa nel salone di casa, dove mi aspetta ogni volta il mio ritorno a casa. E, anche se lo schienale non è comodissimo e bisogna aggiungerci i cuscini, anche se non è accogliente come i divani lì a due passi, c’è qualcosa di piacevole nel prenderla, avvicinarla al caminetto e lasciarsi dondolare, facendo attenzione a non scivolare giù – sì, capita anche quello.
Nonostante quest’autunno dalle temperature piuttosto calde, ho freddo. E no, la temperatura esterna non c’entra nulla. E’ un freddo che viene da dentro, un freddo che non ti so spiegare, un freddo che colpisce le ossa, un freddo che blocca lo stomaco ed è difficile da riscaldare. E’ un freddo che mi fa desiderare solo la mia sedia a dondolo, un caminetto acceso, una tazza di cioccolata calda ed un libro. Per estraniarmi dal mondo, per staccare l’interruttore. In attesa che torni la primavera. Perché io non so mica se ce la faccio ad affrontare un altro inverno.

(Non) è solo il tempo a rivelare la stagione

Volevo essere Romy Schneider

Volevo essere Romi Schneider /1 Volevo essere Romi Schneider /2
Lecce, Porta Napoli, 26 agosto 2011

Non possiamo imporci per chi perdere la testa. Però possiamo imporci, a volte, di non essere così dannatamente dame dell’Ottocento quando pensiamo di essere coinvolti sentimentalmente*, mi hanno detto. Ed è quello che ho provato a fare, con un bel po’ di ritardo. Ed è stato tutto inutile. Arriverà il momento in cui apprezzerò quest’inutilità, lo so. Arriverà come è arrivato il momento in cui ho capito che gli stupendi abiti indossati dalla Principessa Sissi altro non erano che delle trappole di stoffa e impalcature, che la gonna era così vaporosamente sfavillante solo perché sorretta da un’invisibile struttura, che la sua vita era tutt’altro che da favola. Arriverà.
Non ora, però.

Hai mai giocato al lupo mangiafrutta?

-Toc toc
– Chi è?
– Il lupo mangiafrutta?
– Che frutto vuoi?

Il lupo iniziava ad elencare una serie di frutti – arancia, limone, mandarino, fragola, banana, mirtillo, mela – finché qualcuno non iniziava a scappare, arrivava sino a quell’angolo lì e poi tornava indietro vicino al cancello rosso, cercando di non farsi acchiappare.
Hai mai giocato al lupo mangiafrutta? Io sì, un sacco di volte, su quella strada asfaltata vicino al mare dove passavo le sere con altri bambini come me, alternando il lupo mangiafrutta, la strega comanda-colore, la palla avvelenata e l’esecuzione in urlo maggiore di tutte le canzoni possibili e inimmaginabili usate come sigle di cartoni animati in quegli anni.
Dopo aver deciso chi dovesse fare il lupo, ti ritrovavi a cercare un frutto impensabile per evitare di fare la corsetta. Mela, pera, banana erano troppo facili, troppo scontati; bisognava scegliere nomi di frutti non molto abituali come gelso, nespola, caco, kiwi o mela cotogna. Perché si dovesse scappare non l’ho mai capito (o, semplicemente, non me lo sono mai chiesta). Per proteggere il panierino pieno del frutto scelto dalle fauci del lupo cattivo o per proteggere noi stessi trasformati in frutto? Nel caso l’ipotesi giusta fosse la seconda, mi chiedo se ho mai pensato di essere un fico d’India. Non credo. Era un frutto facile da indovinare, data la sua onnipresente diffusione.
Nel giardino di casa mia ci sono sempre stati alberi di fichi d’India. Mi hanno sempre fatto paura, per colpa di quelle spine che minacciano di infilarsi in qualsiasi punto del corpo e di far male. Per questo, li ho sempre tenuti a distanza, come tento di fare con qualsiasi cosa che mi possa far male. Allo stesso modo, loro, con le loro spine appuntite e trasparenti, mi hanno tenuto a distanza, richiudendosi nel loro mondo fatto di polpa bianca/gialla/rossa e di semi, germogli di piccole felicità e di desideri che non si potranno realizzare mai.
L’altro giorno, ho provato a ridurre la distanza tra noi e, mentre osservavo mia madre che li raccoglieva, mi sono resa conto che non sono poi tanto diversa da quei frutti che ho sempre temuto. Come loro, ho la mia bella corazza di spine grazie alla quale mi proteggo o, sarebbe meglio dire, cerco di proteggermi. Allo stesso modo, ci chiudiamo in noi stessi e ci godiamo il sole che coccola la nostra buccia, dandoci la forza che ci serve non solo per cambiare pelle ma anche per crescere. Allo stesso modo, per riuscire a vedere il colore vivo presente al nostro interno e per gustarne il sapore, c’è bisogno di cautela nell’averci a che fare, usando le giuste precauzioni o gli strumenti adatti per far sì che facciamo e ci facciamo il minor male possibile. Allo stesso modo, siamo ricoperti di spine ma, se si vuole e si è realmente intenzionati a soddisfare il proprio interesse, la loro pericolosità può essere facilmente neutralizzata. Bisogna solo volerlo.
Meno male che ho scoperto questa somiglianza in questa strana estate. L’avessi pensato anche da bambina, avrei dovuto correre parecchie volte per scappare dal lupo cattivo e non è che mi piacesse tanto farlo. E poi, a me i fichi d’India neanche piacciono.

Hai mai giocato al lupo mangiafrutta?

  • Scrivimi!

    Dubbi? Insulti? Lamentele? Curiosità? Segnalazioni. Scrivi qui: snuggleandsmiles[at]gmail.com
  • Nelle precedenti puntate

  • Categorie

  • Più votati

  • 123

    ViviStats